scrivo solo adesso, in questi pochi minuti di libertà che mi vengono concessi da dove sono rinchiuso: uno stanzino buio, stretto, con un tavolaccio per dormire e un angolino lurido dove espletare i miei bisogni.
non so se e quando questo mio messaggio vedrà mai la luce del sole, io stesso dispero di rivederla. ma la mia mano si muove affannosa e veloce, illuminata da quel che resta di una vecchia candela, per raccontare la storia di john doe, che ha rovinato la sua e le nostre vite, quel maledetto undici settembre del duemilaeotto.
il suo messaggio arrivò alle sette dell'otto settembre, ma naturalmente, in ufficio, lo leggemmo solo il mattino dopo.
Sto male, non vengo oggi al lavoro.
secco, telegrafico, senza dettagli né ulteriori richieste.
un messaggio come un altro, nessuna preoccupazione: 8 settembre, johnny non viene al lavoro. càpita, è normale.
l'8 settembre il telefono di john ha squillato tutto il giorno, ma nessuno ha risposto.
la preoccupazione nei nostri cuori è diventata angoscia, a sera, quando johnny non rispondeva neanche al citofono. l'amica gertrude aggiunse angoscia ad angoscia, preoccupazione a preoccupazione: la sua telefonata con john si era conclusa, la sera del 7 con un Ti lascio, sto troppo male, e la stessa gertrude che non capì il resto, perché troppo biascicato.
la polizia ci disse che avremmo dovuto attendere 48 ore, prima di denunciare formalmente la scomparsa. nessuno di noi aveva il cuore di chiamare i genitori di johnny: e se ci fossimo sbagliati? restammo ancora un giorno in attesa, con l'ansia che cresceva e bloccava sonno e respiro.
il secondo giorno, il telefono di john era ancora muto. un silenzio spezzato a cadenza regolare da un fin troppo eloquente tuuuu.
disperati, folli, ci rivolgemmo al boss, il quale, senza esitare, autorizzò il proprietario del residence a entrare e controllare.
l'attesa fu lunga, estenuante, straziante. tutti temevano il peggio.
luke sapeva che john era morto, glielo potevi leggere nelle lacrime che non aveva versato. ma non avrebbe mai osato dirlo, perché anche se era un duro, si aggrappava alle ultime gocce di speranza come un naufrago al suo pezzo di nave.
il terzo giorno, quando il suono del telefono ci fece sobbalzare dal torpore pessimistico nel quale ci eravamo rinchiusi, fred si fiondò sulla cornetta come un invasato.
pendavamo dalle sue labbra.
è in casa.
è vivo.
l'angoscia lasciò il posto al sollievo.
il sollievo alla gioia.
la gioia alla rabbia.
cristo john, ma perché cazzo non hai mai risposto al telefono?
a sera, io e luke passammo all'emporio del vecchio stanford, ma c'era il figlio. prendemmo quello che dovevamo prendere, poi andammo a farci due birre, in silenzio, pregustando il domani, il momento dell'incontro, mischiando il futuro piacere al presente rossore del doppio malto.
la mattina dell'undici settembre, anche gli altri avevano avuto la nostra stessa idea, ma la polizia non volle sentire ragioni. ci portò tutti dentro, ci rinchiuse in questo cesso dal quale sto scrivendo adesso, e buttarono via la chiave. a nulla valsero le nostre spiegazioni, a nulla valsero i cinquecento pezzi da dieci che passarono sottobanco dalle nostre alle loro tasche.
john doe è morto, l'undici settembre.
caduto sotto i nostri colpi, sotto le nostre spranghe e le mazze da baseball comprate la sera prima all'emporio del vecchio stanford.
john doe è morto, perché ci aveva fatto incazzare come delle iene.
mercoledì 17 settembre 2008
la misteriosa scomparsa di john doe
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Pubblicato da michele alle 15:53
roba che parla di: raccontelli, siocchezze, vita d'ufficio
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2 commenti:
Si ma la tua mano si muove affannosa e veloce...
caro oniduke, potrei risponderti in due modi:
il primo, che si tratta di un ossimoro, una figura retorica che accosta due parole che esprimono concetti fondamentalmente opposti.
il secondo, che sono un pirla.
questo è un blog libero, scegli pure la spiegazione che più ti aggrada
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